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Tocca le mie ferite e credi nella mia sofferenza, non ho altro da dimostrare di ciò che è rimasto di una partita al gioco più folle al quale io abbia mai partecipato. Ma se hai pochi minuti da dedicarmi, ho una storia da raccontarti. Mettiti comodo.

venerdì 26 aprile 2024

Chi si accontenta, gode.

Alcune delle persone che mi conoscono personalmente ed hanno accesso a questo mio blog, mi rivolgono spesso la stessa domanda. Il senso di questa domanda si potrebbe riassumere come: "Quanto scrivere ti aiuta? E quanto, invece, no?".
Ovviamente, chi mi conosce personalmente, ha qualche conoscenza in più della mia persona e della mia storia, potrebbe quindi (forse, non lo so) venir loro più semplice comprendere (?) o, meglio, interpretare e collocare, molte delle cose che scrivo. Queste persone non mi conoscono tutte allo stesso livello, anzi, ma questo ha importanza solo fino ad un certo punto, visto che questa curiosità accomuna molti di loro. 
Per rispondere a questa domanda mi verrebbe da porre subito come premessa che, scrivere, mi piace. Mi è sempre piaciuto e ritengo sia una delle poche cose nelle quali riesco meno peggio. E dicendo questo non voglio intendere che mi ritengo bravo nello scrivere, perché non penso sia così. Quello che voglio invece dire è che la scrittura mi richiede un ridotto dispendio di energie. Nel momento in cui mi accingo a scrivere mi rilasso come in poche altre occasioni e prende vita un momento tutto mio che è per me molto difficile da spiegare. Chi ama la scrittura potrebbe immaginare a cosa mi riferisco.  
Spesso mi sono interrogato sul motivo di questa domanda da parte di persone diverse, arrivando alla conclusione che deve nascere prevalentemente dal contenuto di ciò che scrivo. Ogni tanto mi rileggo e io stesso trovo i miei scritti a tratti inquietanti, sicuramente pragmatici e criptici, di non immediata comprensione. Il più delle volte mi esprimo per immagini ma solo perché penso non abbiano ancora inventato le parole più adatte ad esprimere molti dei miei pensieri.
Scrivere mi aiuta in questo senso. Scrivere non è il fine ultimo, ma il mezzo per esternare cose altrimenti per me impossibili da trasmettere. 
Non sempre mi piace quello che scrivo. Ma la scrittura, come qualsiasi altra forma d'arte, non è altro che lo specchio dell'artista. Ho tuttavia raggiunto una consapevolezza tale da non farmene una colpa. Immagino che se la mia vita fosse stata più "bella" avrei scritto cose più piacevoli. Se la mia esistenza fosse più "semplice" scriverei cose più comprensibili. 
La scrittura è il compromesso che ho raggiunto con la vita.

lunedì 22 aprile 2024

Colori da pazzi.

Raro ritratto di Ernest ritrovato a bordo strada in uno dei quartieri più malfamati di Milano. 
Artista: sconosciuto.
Tecnica: pennarelli Giotto a punta grossa su foglio di scarto. 

La fede del funambolo.

Come un funambolo ho sempre avanzato in un equilibrio un po’ precario, senza mai ben sapere quale dovesse essere il traguardo né tantomeno come io abbia fatto a trovarmi su di una corda tesa sul vuoto. Un piede davanti all’altro, passo dopo passo, con le gambe un po’ traballanti per via delle vertigini e per questo sempre in bilico sulla paura di una caduta infinita.
Provo a rimanere concentrato e mi sforzo a non guardare di sotto ma è più forte di me ed il mio sguardo è catturato da una folla che mi osserva con naso all’insù. Molti di loro sembrano divertiti dal mio spettacolo, altri appaiono preoccupati, qualcuno lancia addirittura scommesse. In questo attimo di distrazione barcollo e la corda sotto i miei piedi ondeggia vibrando, facendomi dondolare per qualche istante prima di riuscire a trovare l’attenzione necessaria a rimettermi in linea, quindi proseguo. 
Nella mente i pensieri si accalcano gli uni sugli altri, tanto da non rendermi nemmeno conto che le mie labbra stanno pronunciando silenziosamente qualcosa: Dio, aiutami.

mercoledì 17 aprile 2024

Quando il dealer chiama il River.

Segue ora "qualcosa", estrapolato da "qualcosa" riguardo a "qualcosa".


Che poi, per dirla tutta, immagino che dovrei ritenermi fortunato. «Tieni a mente che sessant’anni fa, alle persone con le tue patologie, veniva effettuato l’elettroshock» mi ha detto qualcuno poco tempo fa. Riconosco in questa persona le migliori intenzioni, nell’esatto istante in cui queste parole lasciavano la sua bocca, ma solo perché conosco bene la persona che ho appena citato: mio padre. Ed è vero che non si sta così male, in fondo, nel posto dal quale scrivo. Posso però dire con sicurezza di aver visto cose assurde, a volte orribili, nel corso del mio rapporto con la malattia mentale. Immagini che molto difficilmente lasceranno mai la mia mente, come fossero marchiate a fuoco sulla pelle nuda. Oggi cicatrizzate un po’ male e che diventano fastidiose a periodi alterni, solleticando e facendo prurito. Qualcosa di antipatico, insomma. Sono certo che i pazienti psichiatrici di qualche generazione passata, folgorati e lobotomizzati, la vedrebbero diversamente. È per questo che io, tutto sommato, non dovrei lamentarmi. Eppure, quelle cicatrici, con il loro prurito un po’ molesto, sono lì. Ed ho notato, oltretutto, che si fanno sempre sentire nei momenti meno opportuni. O al contrario, con un tempismo spiazzante. Non saprei scegliere tra le due. Tuttavia, quando la malattia mentale è esplosa in me, lo ha fatto con un certo savoir-faire. Come il protagonista di scena su di un palcoscenico, in grado di attirare a sé l’attenzione di ogni spettatore in sala. Ed io, a quel punto, non sono più riuscito a vedere nient’altro. Avrei dovuto aspettarmelo perché sì, è vero, la malattia è esplosa ma il timer del suo orologio ticchettava in me praticamente da sempre: Tic, tac, tic, tac… Qualcosa di fastidioso ed irritante anche quel ticchettio perpetuo, spesso addirittura angosciante. Fin da quando ero piccolissimo avevo la forte sensazione di essere destinato a qualcosa. Non sapevo a cosa, con esattezza, ma di una cosa ero certo: si trattava di qualcosa più grande di me. Stavo in bilico su quel presentimento di dover arrivare prima o poi alla più immensa delle gioie o, al contrario, alla peggiore delle disgrazie. Avevo poco più di tre anni, che io ricordi, quando iniziai ad avere questa percezione e quell'orologio iniziasse la sua corsa. Ci volle un’altra ventina d'anni prima che qualcosa, effettivamente, accadde. A quel punto mi sono detto «ci siamo, finalmente». In un climax ascendente di eventi curiosi e singolari ricchi di suspense, me la sono trovata davanti. Altezzosa ed imponente mi sovrastava guardandomi dall’alto. Era la malattia mentale. In quel momento mi sono sentito come fossi stato ostaggio per più di vent’anni, minacciato dal freddo ferro di una pistola premuta contro la tempia pronta a sparare dubbi da un momento all’altro. E lo fece, alla fine. 
La malattia mentale è subdola, porta chi ne è colpito a rimettere in discussione ogni suo punto fermo, a sradicare ogni propria convinzione. Alla fine si rimane nudi e vulnerabili. E fa freddo, molto. La mente diventa il luogo peggiore nel quale trovarsi in quel momento, senza nemmeno poterne fuggire. È poca la luce che entra. Ogni tanto è possibile origliare qualche parola provenire dall'esterno ma la cosa peggiore resta il fatto che tutto, ogni cosa, perde consistenza e sfuma, fino a diventare prima irreale ed, infine, finta. 
«Ma io esisto!» non so quante volte io mi sia urlato dentro questa affermazione. Senza mai capire se volevo convincere me o se volevo convincere qualcun altro. In ogni caso, intorno, vi era sempre il silenzio. Nessuno che potesse confermare o smentire quelle mie urla interiori e forse, questo, è sempre già stata una risposta. Personalmente, mi sono sempre sentito vivo a sufficienza tanto da essere in grado di riuscire a desiderare una vita da poter definire almeno “normale". Invece no, io sempre troppo o troppo poco. Tutto o niente. Un’estremista, per quanto io abbia sempre detestato gli estremismi. E questa è un’altra controversa caratteristica della malattia psichica, ossia la continua e perenne lotta tra ciò che sei e quel che vorresti essere. Per quanto mi riguarda è sempre stato l’aspetto più difficile della malattia, l’incapacità di riuscire a prendere in mano la situazione ma anzi, sentirla scivolare sempre più dalle proprie mani come fosse sabbia. A tal proposito mi viene in mente un episodio. Uno degli psichiatri che mi ha seguito nel corso degli anni era solito pormi una domanda: «Quanto lei è protagonista della sua vita?» ed a me è sempre sembrata una presa per i fondelli, quella domanda. La malattia mentale, come dicevo prima, prende la scena e non lascia spazio a protagonisti. Chiunque viva una condizione di malattia, in prima persona o di riflesso, sa di cosa parlo. E lo sapeva bene anche lo psichiatra che mi aveva in cura a quei tempi e che, forse, si aspettava da me una qualche tipo di risposta ben precisa che io non sono mai stato in grado di dargli. Il più delle volte, infatti, mentivo. «In buona parte» mi limitavo a rispondere con finta convinzione prima di deviare la conversazione.
Il mio rapporto con la psichiatria è sempre stato burrascoso. Per farmi capire meglio potrei tranquillamente affermare che con la malattia, pian piano, sto imparando a convivere. Con i medici purtroppo no. Credo di aver cambiato almeno cinque, o forse sei, psichiatri nel corso di una decina d’anni. La stessa cosa vale per la figura dello psicologo. E dei farmaci, vogliamo parlarne? Ho visto diverse volte pazienti psichiatrici implorare infermieri e dottori di somministrare loro medicinali che non fanno altro se non stordirli, fino a portarli in un profondo stato catatonico. È un atteggiamento questo che non condivido, ma che posso capire. Troppo spesso, quella di non essere “presente”, è una necessità che avverto forte anche io. Ho tuttavia sempre avuto una forte avversione nei confronti di questo genere di farmaci. Ne prendo, ma è una cosa che non mi piace fare. Spesso alcuni infermieri mi chiedono «Come va con l’assunzione del farmaco?» ed io rispondo «Bene, è come non lo prendessi nemmeno», e questo è vero. Anche per questo mi considero fortunato. Se non altro non sono costretto a sentirmi chiedere come io mi senta dopo aver ricevuto una scarica da più di quattrocento volt.

domenica 14 aprile 2024

"Vorrei essere nella tua testa", mi dissero.

 


Preferisco questa cover dei Placebo all'originale di Kate Bush, perdonatemi, sono un mostro. 

 

Memories?

Ho un ricordo, fin da quando ero piccolissimo, che non riesco a spiegarmi. Eppure è lì, in memoria da sempre. Deve senza dubbio trattarsi di un falso ricordo, perché non mi è mai capitato di trovarmi in una situazione come quella che sto per descrivere. Sono anche abbastanza certo che non sia un residuo onirico, perché fin da bambino riesco ad inquadrare questo flash più come un vero e proprio ricordo, che come il ricordo di un sogno passato. 



Cammino in un campo di grano, la mia vista si perde all'orizzonte in un paesaggio notturno, illuminato solamente da un cielo stellato. 




Questa immagine mentale mi ha sempre suscitato emozioni e sensazioni contrastanti. Da una parte la tranquillità, la calma e la serenità della solitudine davanti ad uno spettacolo mozzafiato della natura. Dall'altra, l'angoscia e la malinconia nello riscoprirmi minuscolo ed insignificante rispetto a qualcosa di immenso, imponente e potenzialmente pericoloso come l'ignoto e la forza selvaggia ed indomabile dell'universo.

Il paradosso.

Sto mentendo.

martedì 9 aprile 2024

Tutto torna.

 


Io non dimentico. 
Non è mai stato un gioco.

Dicevi?

Non solo ci hanno fatto dimenticare ma ci hanno anche convinto di quello che non saremmo mai riusciti a credere. Riponiamo ora le nostre vuote speranze in tutto ciò che ci promette qualcosa, qualsiasi cosa. Purché la speranza umana non sia mai stata vana, ci compiaciamo di fronte al premio di consolazione promesso dai dogmi del nostro mondo. Costruiti così minuziosamente sulle culture, sulle credenze ed i pregiudizi, sui nostri valori ma, soprattutto, sulle nostre fragilità. Le stesse fragilità, schifose, che fanno di noi umani. Gli umani, una specie per la quale non ho mai avuto una particolarmente positiva considerazione. Nient’altro che palloncini gonfiati dal fiato di un animatore in un momento qualsiasi, in un posto non meglio definito, per chissà quale assurdo e per noi incomprensibile motivo. Quante volte ho sentito ripetere che dovremmo cercare in noi il senso delle nostre stesse esistenze. Sorrido. Mi chiedo quanto valga una vita umana. La svendiamo per così poco: lavorando per uno stipendio a vita fino a poco prima della morte, promettendo amore eterno ad una persona incontrata su miliardi al mondo oppure procreando in tempi di guerre e crisi. Non storcete il naso per il mio cinismo, che qualcuno chiamerebbe negatività. Mi sto solo sforzando nel tentativo di calcolare numeri giganteschi, senza tenere in considerazione la realtà che mi sarà comunque impossibile arrivare all’infinito. Purtroppo sono fatto così, me lo ero quasi dimenticato.

domenica 7 aprile 2024

Assioma della pazzia.

Se qualcuno accusa qualcun altro di esser pazzo, allora è lui stesso ad esser pazzo.

Qualcuno che si considera pazzo non lo sarà mai realmente.



Dopo più di trent'anni non riesco ancora ad abituarmi a tutto questo. 

Qualcosa dev'essere andato storto, dall'altra parte. 

È tutto così... Strano.



martedì 2 aprile 2024

Caccia al tesoro.

Ho una mappa nella testa che potrebbe portarmi dove non vorrei mai arrivare. La accartoccio su sé stessa e dentro al cranio la faccio rimbalzare. Ogni tanto la piego e la ripiego e prende vita un origami. Solo a volte poi la studio e col compasso traccio la rotta che mi riporti sui miei passi. Una vecchia bussola senza campo mi assicura che procedo sottosopra e controvento su un percorso senza senso. Oltre la lente del cannocchiale vedo ad ovest un piccolo puntino all'orizzonte. Si avvicina al calar del sole che si spegne, si accendono le stelle ed eccolo finalmente: son sempre io. Nel buio, in mezzo al niente. Sul retro di quella stessa mappa scrivo a penna un messaggio s.o.s. che poi lancio tra le onde in balia della corrente. Eppure son io stesso che mi son smarrito nel tentativo di arrendermi al gioco della mente. Non si vince, non si perde. Si gioca solo eternamente.

Ghosting.

A me dispiace. Non l'ho mai fatto apposta, né tantomeno con cattiveria. Chissà quante persone aspettano ancora da me spiegazioni, o più semplicemente una risposta. È uno dei miei tanti limiti. Questi maledetti schermi ci rendono così sfacciati. Facciamo continuamente cose che non vorremmo mai fare. Diciamo in continuazione cose che non vorremmo nemmeno mai aver pensato. E poi amare, detestare fino a rovinare le cose belle, uccidere mostri, risvegliare diavoli ed aprire le porte dell'inferno. Non mi sono mai illuso di aver trovato Dio, l'amore, il senso della vita o il tesoro alla fine dell'arcobaleno. Non posso però negare di essermi più volte concesso fugaci attimi di spensierata, tanto quanto finta, felicità. Ed ho ripetuto fino alla nausea di quanto la felicità sia una condizione precaria, fugace, appunto illusoria e a volte anche dolorosa. Quasi una stronzata. Ma le vie del sabotaggio sono infinite ed infinite volte ho tagliato quel filo che ho sempre cercato, credendo qualche volta addirittura di averlo trovato, per qualche breve istante. Non è un problema con chi sta dall'altra parte, è un problema con me stesso. Non è mai stato per fare del male a chi si trova dall'altra parte, è sempre stato per fare del male a me stesso. Io sento il silenzio. Sento le domande, ascolto le risposte e vedo i mille pensieri che sfrecciano fino a rompere la barriera del suono. Il senso di inadeguatezza, il rimorso, la solitudine ed il vuoto. Ho provato ogni cosa ma questo non mi può giustificare. Rinuncio anche al perdono, tenetelo per faccende più importanti. Io non ho mai avuto nulla da raccontare.

Certe coincidenze mi fanno solleticare il cervello.

Sul rogo.

L'intuizione vede oltre. Il più delle volte risulta il mezzo più efficace per giungere alla verità, anche se questa arriva sempre in differita e già nel momento in cui cerchiamo altro. L'empirismo non può che fermarsi ai limiti che questa realtà ci impone e alle leggi che governano il mondo. Che poi, l'intuito è sempre come una foglia attaccata al ramo: non si muove se non tira vento.

U C C I D E T E M I .

Il sogno serve a ricordarci che la verità è tale solo fino a quando non apriamo gli occhi.

L'infelicità è la forma che prende la consapevolezza dell'esistenza di altro.