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Tocca le mie ferite e credi nella mia sofferenza, non ho altro da dimostrare di ciò che è rimasto di una partita al gioco più folle al quale io abbia mai partecipato. Ma se hai pochi minuti da dedicarmi, ho una storia da raccontarti. Mettiti comodo.

mercoledì 17 aprile 2024

Quando il dealer chiama il River.

Segue ora "qualcosa", estrapolato da "qualcosa" riguardo a "qualcosa".


Che poi, per dirla tutta, immagino che dovrei ritenermi fortunato. «Tieni a mente che sessant’anni fa, alle persone con le tue patologie, veniva effettuato l’elettroshock» mi ha detto qualcuno poco tempo fa. Riconosco in questa persona le migliori intenzioni, nell’esatto istante in cui queste parole lasciavano la sua bocca, ma solo perché conosco bene la persona che ho appena citato: mio padre. Ed è vero che non si sta così male, in fondo, nel posto dal quale scrivo. Posso però dire con sicurezza di aver visto cose assurde, a volte orribili, nel corso del mio rapporto con la malattia mentale. Immagini che molto difficilmente lasceranno mai la mia mente, come fossero marchiate a fuoco sulla pelle nuda. Oggi cicatrizzate un po’ male e che diventano fastidiose a periodi alterni, solleticando e facendo prurito. Qualcosa di antipatico, insomma. Sono certo che i pazienti psichiatrici di qualche generazione passata, folgorati e lobotomizzati, la vedrebbero diversamente. È per questo che io, tutto sommato, non dovrei lamentarmi. Eppure, quelle cicatrici, con il loro prurito un po’ molesto, sono lì. Ed ho notato, oltretutto, che si fanno sempre sentire nei momenti meno opportuni. O al contrario, con un tempismo spiazzante. Non saprei scegliere tra le due. Tuttavia, quando la malattia mentale è esplosa in me, lo ha fatto con un certo savoir-faire. Come il protagonista di scena su di un palcoscenico, in grado di attirare a sé l’attenzione di ogni spettatore in sala. Ed io, a quel punto, non sono più riuscito a vedere nient’altro. Avrei dovuto aspettarmelo perché sì, è vero, la malattia è esplosa ma il timer del suo orologio ticchettava in me praticamente da sempre: Tic, tac, tic, tac… Qualcosa di fastidioso ed irritante anche quel ticchettio perpetuo, spesso addirittura angosciante. Fin da quando ero piccolissimo avevo la forte sensazione di essere destinato a qualcosa. Non sapevo a cosa, con esattezza, ma di una cosa ero certo: si trattava di qualcosa più grande di me. Stavo in bilico su quel presentimento di dover arrivare prima o poi alla più immensa delle gioie o, al contrario, alla peggiore delle disgrazie. Avevo poco più di tre anni, che io ricordi, quando iniziai ad avere questa percezione e quell'orologio iniziasse la sua corsa. Ci volle un’altra ventina d'anni prima che qualcosa, effettivamente, accadde. A quel punto mi sono detto «ci siamo, finalmente». In un climax ascendente di eventi curiosi e singolari ricchi di suspense, me la sono trovata davanti. Altezzosa ed imponente mi sovrastava guardandomi dall’alto. Era la malattia mentale. In quel momento mi sono sentito come fossi stato ostaggio per più di vent’anni, minacciato dal freddo ferro di una pistola premuta contro la tempia pronta a sparare dubbi da un momento all’altro. E lo fece, alla fine. 
La malattia mentale è subdola, porta chi ne è colpito a rimettere in discussione ogni suo punto fermo, a sradicare ogni propria convinzione. Alla fine si rimane nudi e vulnerabili. E fa freddo, molto. La mente diventa il luogo peggiore nel quale trovarsi in quel momento, senza nemmeno poterne fuggire. È poca la luce che entra. Ogni tanto è possibile origliare qualche parola provenire dall'esterno ma la cosa peggiore resta il fatto che tutto, ogni cosa, perde consistenza e sfuma, fino a diventare prima irreale ed, infine, finta. 
«Ma io esisto!» non so quante volte io mi sia urlato dentro questa affermazione. Senza mai capire se volevo convincere me o se volevo convincere qualcun altro. In ogni caso, intorno, vi era sempre il silenzio. Nessuno che potesse confermare o smentire quelle mie urla interiori e forse, questo, è sempre già stata una risposta. Personalmente, mi sono sempre sentito vivo a sufficienza tanto da essere in grado di riuscire a desiderare una vita da poter definire almeno “normale". Invece no, io sempre troppo o troppo poco. Tutto o niente. Un’estremista, per quanto io abbia sempre detestato gli estremismi. E questa è un’altra controversa caratteristica della malattia psichica, ossia la continua e perenne lotta tra ciò che sei e quel che vorresti essere. Per quanto mi riguarda è sempre stato l’aspetto più difficile della malattia, l’incapacità di riuscire a prendere in mano la situazione ma anzi, sentirla scivolare sempre più dalle proprie mani come fosse sabbia. A tal proposito mi viene in mente un episodio. Uno degli psichiatri che mi ha seguito nel corso degli anni era solito pormi una domanda: «Quanto lei è protagonista della sua vita?» ed a me è sempre sembrata una presa per i fondelli, quella domanda. La malattia mentale, come dicevo prima, prende la scena e non lascia spazio a protagonisti. Chiunque viva una condizione di malattia, in prima persona o di riflesso, sa di cosa parlo. E lo sapeva bene anche lo psichiatra che mi aveva in cura a quei tempi e che, forse, si aspettava da me una qualche tipo di risposta ben precisa che io non sono mai stato in grado di dargli. Il più delle volte, infatti, mentivo. «In buona parte» mi limitavo a rispondere con finta convinzione prima di deviare la conversazione.
Il mio rapporto con la psichiatria è sempre stato burrascoso. Per farmi capire meglio potrei tranquillamente affermare che con la malattia, pian piano, sto imparando a convivere. Con i medici purtroppo no. Credo di aver cambiato almeno cinque, o forse sei, psichiatri nel corso di una decina d’anni. La stessa cosa vale per la figura dello psicologo. E dei farmaci, vogliamo parlarne? Ho visto diverse volte pazienti psichiatrici implorare infermieri e dottori di somministrare loro medicinali che non fanno altro se non stordirli, fino a portarli in un profondo stato catatonico. È un atteggiamento questo che non condivido, ma che posso capire. Troppo spesso, quella di non essere “presente”, è una necessità che avverto forte anche io. Ho tuttavia sempre avuto una forte avversione nei confronti di questo genere di farmaci. Ne prendo, ma è una cosa che non mi piace fare. Spesso alcuni infermieri mi chiedono «Come va con l’assunzione del farmaco?» ed io rispondo «Bene, è come non lo prendessi nemmeno», e questo è vero. Anche per questo mi considero fortunato. Se non altro non sono costretto a sentirmi chiedere come io mi senta dopo aver ricevuto una scarica da più di quattrocento volt.

Okay, ma com'è possibile?