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Tocca le mie ferite e credi nella mia sofferenza, non ho altro da dimostrare di ciò che è rimasto di una partita al gioco più folle al quale io abbia mai partecipato. Ma se hai pochi minuti da dedicarmi, ho una storia da raccontarti. Mettiti comodo.

mercoledì 22 marzo 2023

Siamo il sogno di altri.

 «Non c'è bisogno di correre» si disse Ernest. Eppure non poteva fare a meno di camminare con quel passo così spedito tanto da rendergli difficoltoso il respiro. Pioveva e faceva freddo, ma non era dalla pioggia e nemmeno dal freddo che gli sferzava il volto che voleva scappare, correndo in quella maniera così affannata. Non stava nemmendo scappando, dopotutto. Era solito prendere la vita in questo modo, Ernest: sempre di corsa. Con un orologio al polso ed uno nel taschino ma nessuno dei due che segnasse mai l'ora esatta. 

Era ormai il tramonto sulla città così umida e piovosa ma la luce del crepuscolo filtrava attraverso le nubi illuminando i dettagli urbani di un riflesso dorato, quasi abbagliante. Nonostante entrambi i suoi orologi non fossero sincronizzati tra di loro, Ernest sapeva comunque di essere già in largo anticipo. Si stava recando ad una vecchia locanda ai confini della citta, è lì che si sarebbero incontrati. «Ti aspetterò qui ogni sera» gli aveva detto Hanna, in lacrime, alcuni mesi prima che Ernest lasciasse la città per motivi che non aveva voluto spiegarle.

Fradicio, infreddolito e stanco, si trovava ora davanti alla porta d'ingresso di quella locanda. Ernest sposta lo sguardo lontano, proprio dove la strada principale di quella via si unisce con l'orizzonte per accorgersi che, il sole, non era ancora del tutto tramontato. Non si aspettava quindi di trovare Hanna gia all'interno del locale, seduta proprio a quel tavolo dove i due erano soliti incontrarsi ogni sera prima della partenza di lui. Con una manata contro la porta a spinta della locanda, Ernest entra ed, invece, la vede.

Hanna. Con i suoi soliti capelli castani riflessi di rame, quasi mai pettinati o particolarmente acconciati ma ugualmente sempre così belli, porprio perché naturali. Le cadevano a cascata sulle spalle del cappotto che ancora indossava. Ed erano bagnati della stessa pioggia che aveva colpito Ernest per raggiungerla, come se qualcosa li avesse legati ancor prima che riuscissero a rincontrarsi. Teneva lo sguardo basso verso il tavolo, pensierosa. Non sapeva ancora, Hanna, che quella sera la sua attesa non sarebbe stata vana come quelle dei mesi che avevano preceduto il ritorno di Ernest in città. 

Un sorriso compare sul volto di lui. «Hai mantenuto la tua promessa, Hanna, mi hai aspettato», pensa. Si avvicina al tavolo di lei, che poi era il loro tavolo. «Posso sedermi, signorina?» Le dice lui ad alta voce con tono ironico di chi conosce già la risposta. Lei solleva lo sguardo in un sussulto, con gli occhi di chi crede di aver avuto un'allucinazione ma  sempre gli stessi occhi così neri, profondi e curiosi dei quali lui si era fin da subito innamorato. Lo guarda incredula per qualche istante poi, come lasciando andare tutta la tensione accumulata in una lunga interminabile attesa, si lancia su di lui portandogli le braccia intorno al collo per stringerlo in un abbraccio che avrebbe voluto non finisse mai.

Si trovavano ora seduti, ancora una volta, al loro tavolo di quel posto che li aveva visti conoscersi, in qualche modo crescere e, infine, salutarsi. Una bottiglia di vino rosso e due calici. Fuori pioveva ancora, le voci dei clienti all'interno della locanda risuonavano nel locale. Lo sguardo di lui perso negli occhi di lei che credeva non avrebbe mai più rivisto. Ad Ernest sembra tutto così ovattato, sfuocato e lontano. «Ehi!» Lo riporta Hanna alla realtà. Lui scuote la testa, sembra intorpidito da un lungo sonno e solo con il richiamo di lei riesce a prendere contatto con il mondo che lo circonda. 

«Quanto tempo è passato, Hanna? Aiutami a ricordare.» Chiede lui. «Quasi un anno.» Risponde lei. Tra i due cala il silenzio, Ernest allunga il braccio verso il suo calice di vino, ne beve un sorso e quel vino sembra portarlo ancora una volta lontano. «Te ne sei andato senza dirmi niente, una sera di quasi un anno fà. Mi hai salutata a questo tavolo e te ne sei andato, così, senza darmi spieagazioni.» Dice Hanna con un tono che sa' tanto di rimprovero. «Non sapevo se ti avrei più rivisto.» Conclude, aspettandosi da lui una qualsiasi risposta. Una risposta che, però, non arriva. 

«Cazzo, vuoi dirmi qualcosa?» Sbotta lei. Ernest con lo sguardo basso verso il suo calice. «Ti ho aspettato per un anno, ogni fottuta sera in questa topaia sperando di vederti entrare da quella porta!» Continua lei alzando il tono di voce. Ernest porta le mani alla testa e, in una smorfia che sembra quasi di dolore, scoppia a piangere. Hanna rimane impietrita e, quando finalmente lui solleva lo sguardo, lei riesce a vedere in lui tutto il suo dolore sordo, tutta la sua muta sofferenza. Un momento. Un attimo mille volte più intimo di tutte le folli scopate che si erano fatti in passato. 

Tutto intorno a quello scambio di sguardi torna ad offuscarsi, quasi a sbiadire. Un telefono squilla alle spalle di lei, un suono che si fa sempre più acuto mentre tutto, intorno a loro, sfuma. Poi una voce che chiama «Hanna! Hanna... Svegliati!» L'immagine del volto straziato di Ernest svanisce, dissolvendosi davanti agli occhi di lei che ora sono aperti. La sveglia risuona forte sul comodino vicino al letto. Hanna mette a fuoco e vede, vicino a lei, suo marito Albert che la chiama scuotendola dolcemente. «Hanna, mi hai fatto preoccupare. Non ti svegliavi.» Lei sembra voler emettere qualche suono ma, dalla sua bocca, solo aria. Nella sua mente, un solo nome: Ernest.  

 


Okay, ma com'è possibile?